Quarantena con l’aikido
Il primo maggio, nel pieno della quarantena, abbiamo ricevuto questo articolo scritto da uno degli iscritti al Banyuaiki Dojo.
“Dove cresce il veleno cresce anche la cura.”
antico proverbio celtico
Due anni scarsi di pratica sono un tempo troppo breve per poter cogliere l’essenza dei principi dell’aikido, lo so bene. Chissà poi se basta una vita. Comunque fin dai primi allenamenti ho messo impegno per applicare almeno il primo dei principi, spostarsi dalla linea. Sul tatami, inizialmente, con non poca difficoltà. Dopo qualche mese ho iniziato a pensarci anche fuori dal tatami, provando a rileggere alcune situazioni personali passate: vicende lavorative, per esempio, nelle quali fare un passo di lato sarebbe stato più semplice e produttivo che non affrontare di petto persone e situazioni. Insomma una nuova prospettiva di osservazione e un’alternativa operativa non da poco. Ho preso un po’ di confidenza con l’idea di applicarlo e in questo tempo funestato dal Covid-19 spostarmi dalla linea mi è parsa spesso l’azione più opportuna. […continua…]
L’annuncio della quarantena nazionale ci ha mostrato un’applicazione del primo principio ad opera delle istituzioni governative: ci hanno imposto all’improvviso di rifugiarci a casa, di cambiare la traiettoria del nostro movimento abituale per spostarci dalla linea di tiro del virus, non avendo armi per contrastarne l’avanzata. Non so dire se il Governo abbia preso una decisione saggia, inutile o, peggio, scellerata: io l’ho accettata di buon grado perché ci ho letto un gesto aikidoistico, sensato.
A quel punto mi sono messa al riparo dallo tsunami mediatico, limitandomi a leggere le comunicazioni ufficiali e ad applicare rigorosamente ogni indicazione e norma a cui queste rinviassero. Non avevo e non ho leve per essere d’aiuto a chi muore, a chi perde il lavoro, a chi vive nell’angoscia per la salute dei propri cari e per la propria, a chi opera per salvare vite o garantire la pubblica sicurezza; potevo e posso solo cercare di mantenere la distanza dagli altri, a tutela loro e mia, trovare la centratura e la serenità necessarie a non commettere sciocchezze e imprudenze e portare avanti con diligenza il lavoro che ho avuto la fortuna di conservare in questa circostanza. Restare lucida e serena mi è parso, insomma, una necessità, una questione di vita o di morte. Ubriacarmi di macabri dettagli, cercare colpevoli o angosciarmi per ciò che accadeva e che accade non sarebbe stato di aiuto a nessuno. Mi sono adoperata per togliermi dalla linea di attacco del terrorismo psicologico mediatico e questo mi ha aiutata a stare bene, più delle vitamine. Non sono inconsapevole, anestetizzata o indifferente. Prego per coloro che hanno restituito la Vita e per tutti quelli che si trovano in difficoltà, di qualsiasi tipo di difficoltà si tratti. Né mi sento inattaccabile. E proprio per questo mi sono spostata dall’onda delle notizie e dei commentatori.
Mi sono sottratta all’attacco dei pensieri angosciosi sulla piega che avrebbero preso le nostre vite nell’immediato futuro: molti hanno accolto la notizia della quarantena come una condanna a scontare una pena ingiusta e di durata indeterminabile. Un’immagine ansiogena e claustrofobica. Mai come in quel momento ho avvertito il bisogno di ancorarmi al presente, alla realtà concreta, evitando l’aggressione di proiezioni mentali inutilmente nefaste. Ho considerato la quarantena come ad un’occasione che la Vita mi dava di restare un po’ a casa non malata, di rallentare, di dare un’occhiata a vecchie cose e di mettere ordine fuori e dentro. Mi sono concentrata su quello che la nuova condizione mi consentiva di fare e, guardandomi bene intorno, ho visto tante possibilità. Ho intensificato i contatti con le persone che condividono la mia visione della Vita, cercando di aiutare per quanto possibile chi non la condivide a trovare dentro di sé una prospettiva altrettanto serena di affrontare il difficile momento. Ho dedicato e dedico molto tempo ad ascoltare punti di vista diversi dal mio e a mettermi nei panni dell’altro. Imparo.
Anche il colpo sferrato dal pensiero di dover attendere la conclusione della quarantena per riprendere a vivere è un colpo al quale mi sono sottratta. Agganciare la vita al verificarsi di certe condizioni è un atteggiamento sempre scivoloso e in certa misura lo assumiamo tutti ogni volta che pensiamo che manchi questa o quella cosa per poter essere appagati; è un diabolico diversivo, un pensiero sabotante che ci distrae da ciò che la Vita ci presenta in quel frangente. Nei momenti più cupi della mia vita, se guardandomi intorno vedevo solo oscurità e macerie, è perché avevo perso energia e lucidità, sbattevo la testa al buio sul muro e 10 cm più in là c’era una porta. L’attesa passiva di ciò che ci libera o ci rende felice partorisce pigrizia, confusione mentale, procrastinazione e paralisi. In breve tempo c’è meno forza e ciò il giorno prima sembrava semplice e leggero diventa faticoso e pesante. Mi sforzo continuamente di passare dalla pigrizia all’azione e, se davvero voglio che qualcosa cambi, faccio anche solo una piccola azione in quella direzione, non attendo che la Vita mi accontenti mentre resto seduta a guardare scene drammatiche in TV. Mi allontano dai pretesti. Mi sposto dal non poter fare, dall’impedimento, al fare qualcosa di nuovo, di creativo, o al fare in modo nuovo e creativo qualcosa che già facevo prima. Riduco al minimo l’attrito con la realtà, insomma. Mi sposto da pensieri di carenza a pensieri di abbondanza; vedo quello che ho a disposizione e vedo che è davvero tanto. Sono riconoscente e cerco di goderne appieno. Faccio qualcosa di pratico. Mi attivo e vivo. E quando medito metto radici robuste nell’azione.
La teleDR settimanale, l’aperitivo virtuale, lo zazen del sabato, i video didattici, l’allenamento quotidiano mi spostano dalla linea di attacco del timore della perdita di contatto col Dojo. La pratica non si è interrotta e la connessione che sento è semmai cresciuta, perché indugiare in pensieri scoraggianti?
Coltivo l’idea che ognuno si stia trovando a convivere con le persone che aveva bisogno di conoscere più a fondo; mi riferisco a una conoscenza non mediata dalle routine pre-Virus o filtrata da ciò che credevamo di sapere degli altri prima della quarantena. Una conoscenza nuova, insomma, frutto del desiderio di comprendere. E’ capitato molti anni fa che un gabbiano sostasse per lungo tempo sul davanzale di una delle finestre della casa in cui vivevo. Fu quasi uno shock trovarmelo lì la prima volta. Era grosso, goffo, minaccioso; dov’erano le sensazioni di leggerezza e libertà che associavo ai gabbiani in volo? Guardarlo improvvisamente così da vicino mi restituiva un’immagine molto diversa di quell’animale. Cercai di allontanarlo dal davanzale, ma non se ne andava. Superato il fastidio iniziale, mi persuasi che avesse bisogno di cibo e di attenzioni; forse era stanco, magari sofferente. Con molta cautela gli diedi del pane. Osservandolo meglio vidi un piumaggio con motivi eleganti, un colore del becco che metteva allegria e uno sguardo vivace. Vidi anche come cambiavano in me giudizi ed emozioni al mutare della prospettiva e del tempo di osservazione. Posso immaginare che in quarantena i nostri cari (o le persone non care con cui viviamo) ci si possano parare davanti in modo ingombrante e probabilmente più a lungo di quanto sia mai accaduto prima. Ecco che li vediamo sotto una luce diversa, meno poetica. E non c’è scampo, si resta tutti lì. Si può però cogliere l’occasione per accantonare un momento il fastidio e anche ciò che pensavamo di quella persona fino a quel momento per osservarla meglio e più da vicino, con un occhio attento alle emozioni che l’osservazione suscita in noi. E’ una possibilità di spostarsi dalla linea del conosciuto, dello scontato, a un territorio privo di pregiudizio. Chissà che non scopriamo qualcosa di più. Su di lui/lei e su noi stessi. Chi si trova a trascorrere la quarantena da solo non fa eccezione: dentro casa incontra se stesso continuamente. E se si ferma un attimo, forse vede quali sono le cose che gli servono davvero e quelle che davvero gli mancano. L’opportunità in fondo è la stessa, osservare prescindendo dal conosciuto, guardarsi con occhi nuovi. Lo sforzo forse è maggiore per chi è solo, dai lati oscuri degli altri possiamo in certa misura distogliere lo sguardo, metterci al riparo, ma di fronte ai nostri mostri c’è poco da fare: una volta che ce li troviamo davanti, dobbiamo fare i conti con loro. E poi ci sono i lati virtuosi e luminosi che non sospettavamo esistessero. Magari affiora una forza che non credevamo di avere e qualità degli altri che non avevamo mai notato e che si rivelano decisive per alleggerire il momento. O semplicemente emerge un autentico piacere di passare più tempo con coloro che amiamo o con noi stessi.
Coltivo anche l’idea che ognuno sia stato in qualche misura accontentato dal virus. Chi era stanco del traffico e avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non guidare la mattina, chi soffriva per mancanza di tempo da trascorrere con i figli, chi si dannava per non potersi dedicare alla casa, alla scrittura, a certi progetti, chi voleva attenzioni, chi era stanco di vivere e voleva morire. Penso dovremmo avere più rispetto verso i desideri. I desideri sono frecce potenti, scomodare le stelle (“de-sidera”) per qualcosa che poi non è veramente ciò che è bene per noi, può avere effetti incresciosi a volte fatali. L’universo realizza sempre i nostri desideri, in un modo o nell’altro; quanto sarebbe utile scandagliare i nostri vuoti e sentire davvero che cosa potrebbe colmarli… La quarantena come un setaccio dell’anima…
In ultimo il nemico più insidioso, il giudizio: verso chi si lamenta, anche se ha un lavoro, un tetto solido sopra la testa, un letto confortevole, buon cibo e la compagnia dei propri cari mentre c’è gente che muore, di virus di fame e di preoccupazioni; verso me stessa perché sto bene e vivo il confino come un regalo, mentre sarebbe politicamente corretto essere rattristati e depressi; verso chi liquida il mio approccio alla Vita come stucchevole e astratta filosofia. Da queste frecce mi metto al riparo, sondando in me alla ricerca di attaccamenti e fragilità che le scagliano.
A volte affiora una tristezza antica. Non me la sento di spostarmi. Non tutti i colpi vanno evitati. Ci sono ferite che risvegliano alla Vita.
Forse non l’ho ancora capito, il primo principio. Ho ancora otto anni abbondanti di tempo… La quarantena finirà prima.